“Here, not There”

We imagine war as distant—always “there,” never “here.”

La guerra è sempre altrove. O almeno, questo è ciò che ci piace credere. Ottant’anni dopo l’ultimo conflitto mondiale che ha segnato le nostre città, viviamo come se la violenza appartenesse ad altri spazi, ad altri popoli, ad altre geografie. Eppure la storia ci ricorda che nessun luogo è davvero immune.
Here, not There nasce per fratturare questa illusione — per riportare il conflitto nei nostri paesaggi quotidiani, negli angoli familiari della mia città e del mio territorio.

Il progetto è nato come evoluzione del mio lavoro precedente, Augmented Unreality, dove avevo iniziato a sovrapporre immagini generate dall’intelligenza artificiale all’interno di scene reali, analogiche. Durante quel processo ho scoperto il potere espressivo della carta stampata stessa — la sua texture, la sua fragilità, la capacità di trasformarsi attraverso la manipolazione. Ho capito che la carta, una volta piegata, stropicciata o sovrapposta a un’altra immagine, assume un linguaggio proprio: fatto di cicatrici, tensioni e memoria.

Da questa intuizione sono nati due approcci visivi che oggi coesistono nel progetto.
Nel primo, fotografie analogiche vengono interrotte da frammenti di distruzione generati dall’AI: stampati su carta economica, poi stropicciati, piegati e riapplicati sull’immagine originale, agiscono come ferite incise nella realtà.
Nel secondo, stampe generate dall’intelligenza artificiale vengono fisicamente inserite in ambienti reali e poi nuovamente fotografate con una macchina analogica, creando intrusioni tangibili che si fondono con prospettiva e luce, confondendo il confine tra documentazione e finzione.

Invece di trattarli come metodi separati, ho scelto di lasciare che questi due linguaggi dialogassero all’interno dello stesso corpo di lavoro: analogico e digitale, fisico e virtuale, coesistono in uno spazio percettivo unico. La piega, la grinza, lo strappo e la presenza intrusiva della stampa nella scena diventano metafore di ciò che preferiremmo non riconoscere: la fragilità, la minaccia, la possibilità che i luoghi a noi più familiari possano un giorno essere trasformati dalla guerra.

Here, not There è un invito a guardare con occhi nuovi ciò che ci circonda — a scoprire, nei segni della vulnerabilità, il potenziale della consapevolezza.
La guerra non è confinata ai notiziari o ai confini lontani: può riemergere come un fantasma tra le pieghe del quotidiano, ricordandoci che la pace non è mai garantita e che l’illusione della distanza è spesso la più pericolosa delle consolazioni.

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War is always somewhere else. Or at least, that is what we like to believe. Eighty years after the last world conflict that scarred our cities, we live as if violence belonged to other spaces, other peoples, other geographies. Yet history reminds us that no place is truly immune.
Here, not There was conceived to fracture this illusion — to bring conflict back into our everyday landscapes, into the familiar corners of my own city and territory.

The project was born as an evolution of my previous work Augmented Unreality, where I began layering printed AI-generated images within real, analog scenes. During that process, I discovered the expressive power of the physical print itself — its texture, fragility, and the way it transforms once manipulated. I realized that the paper, when folded, wrinkled, or overlaid onto another image, carries its own language — one of scars, tension, and memory.

From this intuition, two visual approaches naturally emerged and began to coexist.
In one, analog photographs are interrupted by AI-generated fragments of destruction: printed on cheap paper, then crumpled, folded, and re-applied onto the original image, they act like wounds carved into reality.
In the other, AI-generated prints are physically placed within real environments and then re-photographed with an analog camera, creating tangible intrusions that merge seamlessly with perspective and light, blurring the boundary between documentation and fiction.

Rather than treating them as separate methods, I chose to let these two languages dialogue within the same body of work — analog and digital, physical and virtual, coexist in a single perceptual space. The crease, the wrinkle, the tear, and the intrusive presence of the print inside the scene become metaphors for what we would rather not acknowledge: fragility, threat, the possibility that our most familiar places might one day be transformed by war.

Here, not There invites us to look anew at what surrounds us — to discover, in signs of vulnerability, the potential for awareness.
War is not confined to news reports or distant borders: it can surface like a ghost through the folds of the familiar, reminding us that peace is never guaranteed, and that the illusion of distance is often the most dangerous of consolations.

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Augmented Unreality